
Sulle professioni: pedagogista o psicologo?
Oggi ho incontrato di nuovo Sabina: la ricordi?
È una delle protagoniste di #LeInterviste: quelle guide sulle professioni in cui chiedo chi fa cosa come e perché. Lei ci aveva introdott* nel mondo della pedagogia (la versione integrale è qui).
Avevo intervistato anche Jgor: psicologo e psicoterapeuta infantile.
Ed è da qui che nasce questa seconda intervista, dalla domanda
che differenza c’è tra il pedagogista e lo psicologo infantile?
Quando ci è utile una figura, quando l’altra?
Sabina ha risposto così.
Eccoci qui ad affrontare uno dei temi più caldi per la mia professione:
cosa distingue il pedagogista dallo psicologo infantile.
Innanzitutto, il titolo di studio.
Non è una banalità:
esistono infatti molti – troppi – professionisti che pur avendo conseguito uno specifico titolo di studio, sconfinano in settori che non sono di loro competenza.
Così diventa molto semplice – e purtroppo non infrequente – trovare il pedagogista che si butta a formulare diagnosi e lo psicologo che si improvvisa esperto di processi educativi e si occupa di consulenza pedagogica.
Ma l’aver sostenuto uno o due esami all’università su una specifica disciplina non fa di noi un esperto in quell’ambito.
Anche se infatti ci siano molti esami obbligatori di psicologia – generale, speciale, dello sviluppo, ecc… – all’interno dei corsi di laurea in scienze dell’educazione, questo non fa di noi degli psicologi. Allo stesso tempo, i pochissimi esami in ambito pedagogico nei corsi di laurea in psicologia non fanno del laureato in questa materia un pedagogista.
Attenzione dunque.
Provo ora a spiegare in parole molto semplici – anche perché non amo i tecnicismi 🙂 – come intendere
la differenza tra queste 2 figure professionali.
In linea generale, il pedagogista, nell’ambito della consulenza, parte dalle competenze che un individuo o un gruppo mostrano già di possedere e padroneggiare. Sono competenze rilevabili attraverso l’osservazione del “comportamento”. Il pedagogista non si focalizza su ciò che non va, ma su ciò che funziona nell’individuo o nel gruppo per andare poi a promuovere un rafforzamento di altre competenze che il soggetto sembra padroneggiare meno.
Quindi, in breve, in ambito pedagogico partiamo dal “positivo”.
Lo psicologo – in linea generale, non me ne vogliano i colleghi per questa semplificazione – invece analizza nel singolo o nell’individuo – attraverso strumenti specifici – ciò che non va, ciò che sembra non funzionare, o non funzionare adeguatamente, al fine di comprendere il “perché“, oltre il “cosa”.
Da qui la diagnosi, ma anche l’abilitazione o riabilitazione e il sostegno psicologico.
Sono quindi
2 punti di partenza molto differenti.
Nella realtà, le figure del pedagogista e dello psicologo lavorano a stretto contatto nei servizi per la prima infanzia… o almeno così dovrebbe essere.
Ora, per intenderci meglio, possiamo calarci in un esempio pratico a proposito dell’aiuto che la mia figura professionale apporta.
Capita spesso che i nidi con i quali collaboro mi chiamino per un confronto su alcuni bambini che sembrano, a un primo sguardo, presentare delle difficoltà e/o manifestare nel comportamento un disagio educativo – come direbbe Giuseppe Nicolodi, autore a me caro che invito a scoprire.
Un disagio che mette in difficoltà
in primis gli adulti che con lui si relazionano.
Come mi muovo?
Osservo il bambino nella quotidianità del servizio, in diversi momenti – con modalità e strumenti specifici. Per esempio attraverso la stesura di protocolli osservativi – osservazione partecipata – o anche con l’ausilio di griglie di osservazione offerte in letteratura, come le Tavole di Kuno Beller o simili.
Ogni osservazione ha il suo focus: è infatti impossibile osservare e registrare tutto. È necessario focalizzarsi su un aspetto alla volta.
L’osservazione e il successivo confronto con l’équipe educativa hanno la finalità di analizzare il comportamento del bambino per rilevarne punti di forza ed eventuali difficoltà su cui interrogarci.
Per esempio,
- il bambino non risponde al richiamo dell’educatrice sempre e comunque o solo in alcuni momenti?
- Il bambino si rende conto di essere stato chiamato o no?
- Il contesto nel quale il bambino è inserito ha un peso su questa difficoltà?
- Come si relazionano gli educatori con lui?
A questo punto analizzo insieme alle équipe educativa i fatti rilevati: cerco di comprenderne il significato e le cause.
Poi ne discuto insieme al gruppo e cerchiamo di comprendere quale possa essere la soluzione migliore per affrontare la situazione, a partire dalla progettazione del contesto che accoglie il bambino – routine, spazi, materiali – fino alla relazione con i pari e gli adulti.
Chiaramente, come dicevo prima, l’attenzione è qui rivolta a situazioni che non prevedono l’osservazione anche attraverso lenti differenti, come quelle indossate dai colleghi psicologi.
Insomma, è un lavoro articolato e in grado di portare alla luce una realtà sottovalutata: quella per cui spesso siano contesti non adeguati a “causare” (perdonate la forzatura) comportamenti ritenuti “difficili” dagli adulti.
Concordo con l’importanza del contesto: anche nella comunicazione è un punto cardine.
Spero che questa spiegazione di Sabina sia stata utile: nel caso cercassi ulteriori approfondimenti o informazioni puoi rivolgerTi direttamente a Lei; trovi i suoi riferimenti al fondo della sua prima intervista, qui.